lunedì 23 giugno 2008

conviene leggerlo

riporto il post del prof Rivoltella su argomenti molto interessanti che aiutano a riflettere


In questi giorni sto riflettendo su un passaggio di un libro di Susan Sontag in cui l'intellettuale americana osserva come nella società attuale «l'altro, anche quando non è un nemico, è considerato soltanto come qualcuno da vedere, e non come qualcuno che (come noi) vede».
Il rilievo è acuto, puntuale. La Sontag lo inserisce all'interno di una riflessione che la occupò per dec
enni: quella del rapporto tra la fotografia e la guerra. In quest'ottica l'immagine fotografica diviene spazio sia di esaltazione patriottica che di compassione umana: il corpo straziato che giace sotto l'obiettivo può diventare ora cemento per la retorica bellica, ora strumento di condanna per la guerra, per tutte le guerre. In ogni caso, comunque, il dispositivo dello sguardo ci rende spettatori: l'altro non ha diritto a guardare, ma solo a essere guardato.
La considerazione apre ad almeno due ordini di questioni, entrambe strettamente legate con la formazione in quanto di essa c'è di valore, di più legato all'etica (la formazione, in quanto Bildung, costruzione dell'uomo, non può che fare riferimento sempre anche al valore).
Prima questione. La spettacolarizzazione della sofferenza. L'immagine del dolore è qualcosa che nella società dell'informazione diviene merce all'ingrosso: i telegiornali e la carta stampata ne riempiono la nostra giornata. Le giustificazioni solitamente sono due: il diritto ad informare e il supposto valore deterrente di queste immagini. L'implicito è che se veniamo informati dell'enormità del dolore che l'uomo può causare, dovremmo desistere dal causarne a nostra volta. Ma di fatto quel che si genera è qualcosa di diverso. Guardando le sofferenze degli altri, mentre ne proviamo compassione. otteniamo allo stesso tempo di allontarle da noi perché tutto sommato quel che vediamo non sta accadendo a noi. Si tratta di un dispositivo proprio sia della catarsi aristotelica che della teorizzazione del '700 sul sublime: «lo spettatore gode non della sublimità degli oggetti che la sua teoria gli dischiude, - come osserva Blumemberg - ma della consapevolezza di sé di fornte al turbine di atomi di cui consiste tutto ciò che egli osserva - perfino lui stesso». Compassione senza impegno, compassione come strumento di allontanamento, compassione come sedativo dell'emozione.
Seconda questione. Lo stesso dispositivo spettatoriale può essere assunto a criterio di interpretazione di molti fenomeni propri della nostra società. Penso a quelli che il sociologo Marc Augé ha definito non-luoghi e che occupano larga parte del nostro tempo libero: il grande centro commerciale, l'outlet, i parchi a tema. Si tratta di spazi in cui il dispositivo della spettacolarizzazione diviene iperbolico poiché il suo oggetto non è più la realtà ma lo spettacolo. Come nel caso di Disneyland. «Noi vi facciamo l'esperienza di una pura libertà, senza oggetto, senza ragione, senza posta in gioco. Non vi ritroviamo né l'America né la nostra infanzia, ma la gratuità assoluta di un gioco d'immagini in cui ciascuno di coloro che ci sono accanto ma che non rivedremo mai più può mettere quel che vuole. Disneyland è il mondo di oggi, in quello che ha di peggiore e di migliore: l'esperienza del vuoto e della libertà».

1 commento:

Annalisa ha detto...

Sono appena tornata e un po' stravolta. Credo che questo pezzomeriti di essere stampato e letto conpiù calma. Intanto ho fatto un giro qui e là nei precedenti post :-)